Sembra passata un’eternità da quando il 3D, VR e AR hanno fatto capolino nelle nostre vite di tutti i giorni, sui nostri smartphone, sui nostri computer e console, nei nostri cinema, ma in realtà queste tecnologie si sono sviluppate in una manciata di anni, non senza qualche intoppo lungo la strada.
Fig. 1
Questa limitazione era data dai sensori di cui erano dotati i primi visori e dagli algoritmi. Il rischio era quello di andare incontro al “drift” o effetto deriva: muovendoci nello spazio, il visore non riusciva esattamente a tener traccia delle nostre traiettorie, producendo un effetto deriva come in figura 2 che alla fine potevano condurre ad una totale imprecisione della posizione.
Fig. 2
Questa limitazione è accettabile se ci troviamo davanti immagini a 360°, ma diventa frustrante se vogliamo muoverci ed esplorare interi mondi virtuali.
Con i primi visori, per camminare in spazi virtuali, era dunque necessario affidarsi ad appositi joystick oppure a soluzioni più futuristiche come tapis roulant omnidirezionali (come il Virtuix Omni).
A liberarci completamente dall’ingombro della sedia e da osbolete periferiche e regalarci i 6DoF con la possibilità di muoverci nello spazio in ampiezze ed in altezza, sono state, qualche anno dopo, due tecniche di tracciamento ed un pò di matematica.
Partendo dalla matematica, vi spiego i fondamenti: i quaternioni. Questi sono un’entità matematica introdotta da William Rowan Hamilton nel 1843 come estensioni dei numeri complessi. I quaternioni forniscono una notazione matematica conveniente per la rappresentazione di orientamenti e rotazioni di oggetti in tre dimensioni (figura 3). In confronto agli angoli di Eulero presentano funzioni più semplici da comporre ed evitano il problema del blocco cardanico. Confrontati con le matrici di rotazione essi sono più stabili numericamente e forse più efficienti.
Fig.3
Veniamo adesso alle tecniche per posizionare un corpo nella realtà virtuale. Cominciamo dall' “Outside in tracking”: questa è una tecnica che prevede l’uso di sensori da posizionare nella stanza per tener traccia della nostra posizione come è possibile vedere in figura 4.
Fig. 4
La seconda si chiama “Inside out tracking”: montando sul visore delle fotocamere (anche a bassa risoluzione) ed utilizzando algoritmi di riconoscimento di immagini è possibile ottenere lo stesso effetto (figura 5). Un visore che implementa queste tecniche è l’Oculus Quest, le cui fotocamere presto permetteranno anche di riconoscere le dita delle mani, liberandoci dall’uso di controller e guanti. Gli stessi algoritmi alla base del inside out tracking ci permettono di realizzare esperienze di realtà mista sui nostri smartphone.
Fig. 5
I disegni in questo articolo sono stati realizzati da Sara Torre, illustratrice. Per info e contatti, clickare qui.